E' un amico GTC da anni, è vero: ma leggerlo significa capire meglio il lavoro che stiamo facendo e gliene sono grata:
CIVEDIAMOALDI’PERDI’
“ Sono perso nel
supermercato / non riesco più a fare acquisti contento / sono entrato per
l’offerta speciale / una personalità garantita…”
(THE CLASH-LOST IN THE SUPERMARKET)
Il teatro –quando non é
imitazione morta- può diventare un incontro vivo tra persone vive: allora
prende linfa dai palchi, dal clima diffuso e ogni serata risulta diversa dalle
altre secondo un magico riproporsi di ingredienti identici che creano un piatto
sempre saporito.
CIVEDIAMOALDI’PERDI’ è uno
spettacolo incredibilmente vivo e il particolare debutto nel minuto
teatro arenzanese IL SIPARIO STRAPPATO esalta le sue caratteristiche
creando un rapporto franco e intimo con
il pubblico. La serata inoltre è stata introdotta dal direttore artistico che
compie un’estrazione tra gli astanti affinché possano godere dei premi messi a
disposizione dagli sponsor: il cortocircuito involontario finzione-realtà non
potrebbe essere più compiuto con una magnifica
puntualizzazione durante le domande naif del dibattito post-esibizione
(“Effettivamente avete colto un punto: la chiusura del DI’PERDI’ è stata un
po’ un trauma…”).
Un tavolo, stoviglie, piatti e
tre ragazze sul palco.
Sono tre attrici GTC: Elisabetta
Granara, Elisa Occhini e Sara Allevi.
Impersonano tre cuoche-cameriere
precarie, stritolate nel nevrotico ingranaggio preparatorio della cena di San
Valentino presso un ristorante di livello.
Se il primo lavoro targato GTC
affrontava a muso duro il tabù della morte questa seconda pièce di Elisabetta
Granara, Chiara Valdambrini e Roberta Testino indaga un altro tabù
contemporaneo: il rapporto ossessivo della nostra società affluente con il cibo
e l’acquisto di alimenti.
Se di morte non si vuol mai
parlare di cibo si parla fin troppo e ovunque: un bombardamento di informazioni
urtanti catechizza sulle modalità per accumularlo, sceglierlo, conservarlo,
cucinarlo, in definitiva amarlo.
Il luogo di caccia del
cittadino-ghiottone é il supermercato dove il cibo può assurgere a feticcio e
il consumo mutare in lavoro supplementare tributato alla “libertà sovrana della
merce” (Guy Debord).
Il supermercato come chiesa per i
fedeli: per cui non c’è blasfemia nella preghiera in rima dedicata alla Madonna
dei punti e degli sconti.
Il supermercato come piazza e
punto di riferimento: per cui se viene spostato ci sentiamo smarriti e
continuiamo a darci appuntamento al DI’PERDI’ senza riuscire a
pronunciare il diabolico nome francese che comincia per C.
Il supermercato come valvola di
compensazione: nell’ordine implacabile delle merci, nell’abbondanza crassa
delle offerte speciali, nello splendore invitante di cibi e bevande troviamo la
promessa messianica di una consolazione alle ristrettezze che siamo costretti
ad affrontare.
La consolazione si fonda spesso
su un assunto semplice: se siamo ciò che mangiamo mangiando meglio diventeremo
persone migliori. Il catalogo ironico delle mode dell’alimentazione etica non
risparmia niente: biologico, km zero, equo-solidale, consumo critico,
vegetarianesimo vengono contemporaneamente abbracciati e irrisi come se non
fosse davvero possibile “uscire dal supermarket”.
Il filo conduttore
tematico-musicale delle vicende d’altra parte é l’evergreen di Consuelo
Velazquez che presta il nome al ristorante Besame Mucho e viene intonato
a turno dalle ragazze nel microfono laterale che raccoglie confidenze e sfoghi.
Il testo dolente racchiude il cuore dello spettacolo: baciami, baciami tanto
/ come se fosse stanotte l’ultima volta…e così il bisogno di amore
sublimato nel cibo diviene richiamo all’infanzia dei sapori primari. La torta
di nocciole della nonna riconcilia con il mondo interiore e recupera la
dimensione autenticamente sacrale del cibo preparato a mano come strumento di
cura e di condivisione: la nonna ritorna deponendo una luce fioca fioca, un po’
candela da compleanno un po’ lumino da altare mortuario.
Non possiamo chiedere troppo alla
tortina della nonna: non possiamo sperare di rimanere protetti, di non
soffrire, di innamorarci della mitologica persona giusta o al contrario di non
innamorarci mai.
Eppure uno spiraglio di libertà
esiste: la possibilità di rincontrarsi e riconoscersi senza essere obbligati a
tornare pavlovianamente di fronte all’insegna DI’PERDI’.
In fondo bastano una pensilina, una busta di tabacco e un
gioco di sguardi complici per tornare a essere donne e non tessere nel mosaico
dei giorni dilapidati a consumare e a farsi consumare.
La regia di Elisabetta Granara
mostra una matura complessità nella scelta dei tagli di luce (a cura di Carlo
Cicero), nella composizione delle scene, nella grinta energica delle tre
protagoniste e nel ritmo modulato che non trasforma mai l’insieme in una
collana di gag mantenendo una coesione che avvolge.
Il retrogusto amaro di ogni
segmento spiazza continuamente lo spettatore: si ride soffrendo e alla fine si
piange in una fusione di contrasti emotivi che costituisce la forza propulsiva
di uno spettacolo inquieto e dubbioso.
In questa costruzione ossessiva
contano molto suoni e rumori accuratamente amplificati: i rumori del cibo, i
rumori del corpo e i rumori del cibo che attraversa il corpo trasformando in alieno
quel che é più quotidiano e costringendo lo spettatore a soffermarsi
sull’estraneità dei suoi stessi fenomeni fisiologici (masticazione,
deglutizione e digestione).
Comuni utensili servono ad uno
scopo non comune in una partitura che deve una parte all’estro delle attrici e
molte parti al progetto MUSICA DA CUCINA di Fabio Bonelli, sceso dalle
Alpi per creare musica intessuta di riverberi casalinghi.
Lo spettacolo è nato in occasione
del Festival Play with Food III di Torino e ha vinto il Concorso
Teatropianeta di Siena.
C’è da scommettere che la sua
corsa e quella del GTC non si fermeranno ad Arenzano: buona visione e (se ve ne
resta dopo…) buon appetito.
Giacomo Conti
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